Nel 2023 usciva nelle sale il film “Oppenheimer” sulla vicenda del noto “padre della bomba atomica”. Il successo riscosso dalla pellicola deriva anche dal fatto che i temi proposti sono probabilmente ancora più rilevanti nel dibattito pubblico odierno oggi di quanto non lo fossero all’epoca. Infatti, Sono state proprio le esplosioni in Giappone a rendere pubblico il dibattito sull’utilizzo delle armi di distruzione di massa, in precedenza relegato a piccole cerchie ristrette di scienziati e militari votati alla segretezza. Oggi i genocidi sono trasmessi in diretta social e i leader dei paesi atomici non hanno alcuna vergogna nell’agitare lo spettro della distruzione della specie umana come parte della normale dialettica tra potenze. Ma non sono solo le tensioni tra potenze a minacciare l’umanità: il capitalismo, a questo stadio del suo sviluppo, distrugge le condizioni ecologiche della vita, impone regimi autocratici e repressivi, approfondisce le oppressioni di genere, razza e classe In questo quadro, la scienza e la tecnologia rivestono un ruolo ambivalente: strumenti di emancipazione e progresso o dispositivi di dominio e distruzione, a seconda degli interessi che servono di prim’ordine. Per fare un esempio drammaticamente recente, La velocità e la precisione con cui missili colpiscono obiettivi civili hanno raggiunto livelli impressionanti. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale per identificare e massacrare civili in Palestina e la “guerra dei droni” in Ucraina sono esempi di come un’ampia gamma di tecnologie “pacifiche” trovino applicazioni militari in cui la macchina e l’algoritmo diventano freddi e ottusi intermediari tra vittima e carnefice.
La non-morte del mito positivista
In questo quadro la pretesa funzione filantropica della scienza, figlia del positivismo illuminista, è di fatto morta. Ma non sepolta. Nel ‘45, a deflagrare insieme all’atomica è stata anche l’idea dell’inevitabile valore progressivo della scienza. Dalla nube atomica emerge quella che verrà definita Big Science, la “Scienza Grande”, non più guidata dalla logica positivista della grandezza del bene che poteva apportare all’umanità, quanto dalla vastità dei finanziamenti e delle strutture di cui necessita e dalla capacità di appropriarsi di ogni aspetto della natura mettendolo al servizio del capitale e della produzione militare, nel quadro di decenni di Guerra fredda, sfrenata crescita economica e spregiudicata distruzione ambientale. Alla fine del Novecento, la scienza è stata ulteriormente subordinata agli interessi economici, imbrigliata tramite finanziamenti, brevetti, proprietà intellettuali, intrusione di privati nelle istituzioni di ricerca. Le AI che uccidono in Palestina e le trivelle che distruggono gli ecosistemi non sono incidenti lungo il cammino, ma i prodotti inevitabili del percorso tracciato. Il mito della scienza indipendente, guidata da razionalità, curiosità e filantropia, muore nel momento in cui l’attività scientifica viene sottratta al dibattito e al controllo pubblico, diventando semplice funzione del potere. Da questa morte prendono piede fenomeni come il rifiuto acritico dei vaccini o il negazionismo del cambiamento climatico, concepiti all’interno del fronte reazionario, in un’alleanza per nulla inedita tra ultraricchi e settori di classe media impoverita e spaventata. In questi settori convivono diverse posture, dal complottismo esplicito a una più generica “cultura del sospetto”, che, dalla condivisibile condanna della subordinazione della scienza al profitto, fa derivare la meno condivisibile convinzione che le conclusioni cui la scienza giunge siano in larga parte, se non del tutto, false o manipolate. Dall’altro lato, la comunità scientifica e settori d’intellettualità liberale, ormai residuali e votati unicamente alla rancorosa fustigazione del “popolo bue”, continuano a proporre come soluzione il mantra positivista dell’infallibilità della scienza. Giungono talvolta a proporre la tecnocrazia degli scienziati come soluzione ai mali dei nostri tempi, proprio come la tecnocrazia degli economisti era stata presentata come soluzione alla crisi del debito a partire dal 2008. In questo quadro, il positivismo è morto ma non sepolto. Esso continua infatti ad avere una funzione nei settori votati ancora all’ethos liberale: non come orizzonte ideologico e morale spendibile su cui ricostruirte un’egemonia culturale ormai perduta, ma come arma con cui colpire i complottisti e i “sospettosi” di cui sopra, contrapponendo alle loro teorie fragili, contraddittorie e spesso ridicole tutta l’autorità che due secoli e mezzo di positivismo e sviluppo scientifico possono esercitare. Il positivismo appare così come uno zombie armato di clava, tenuto in vita artificialmente per scontrarsi col mostro dell’antiscientismo e del complottismo. In questo scontro horror, la vera sfida rimane quella di trovare una terza via analiticamente credibile, moralmente sostenibile e politicamente efficace.
Luci e ombre della critica della scienza
Già dai primi anni del Novecento, l’idea di infallibilità dell’analisi scientifica e i criteri epistemologici fondativi della scienza sono stati messi in discussione dalla nascita della fisica quantistica. Ma è soprattutto un’altra tendenza di lungo corso ad attraversare il pensiero contemporaneo. Dopo le correnti irrazionalistiche ottocentesche è stata la volta del linguistic turn nelle scienze umane, che ha spostato l’interesse sulla forma linguistica del sapere piuttosto che sul suo statuto e sul suo portato. In questa prospettiva, il linguaggio diviene un atto performativo, in grado di costruire la realtà sulla base delle retrostrutture e delle relazioni ad esso sottese, piuttosto che uno strumento descrittivo di una realtà esterna “empiricamente data”. Contestualmente, viene fortemente criticata l’idea dell’univocità dei significati e delle interpretazioni di un fenomeno, evidenziando come la prassi scientifica sia ampiamente relativa al contesto in cui si sviluppa e possa quindi condurre a conclusioni plurime ed eterogenee. Sullo sfondo di decenni di critica decostruttivista della scienza, si è dunque affermato un pensiero post-modernista che rifiutava le narrazioni totalizzanti e presuntamente universalistiche del passato (positivismo, illuminismo, marxismo etc) in favore di narrazioni più localizzate e parziali.
È a partire da questo retroterra che negli anni ‘90 hanno preso piede le cosiddette Science Wars, che hanno visto contrapporsi, da un lato, esponenti della cosiddetta “decostruzione” e, dall’altro, studiose e studiosi provenienti dalle discipline scientifiche. I primi rimproveravano ai secondi una forma di ottusità intellettuale, data dall’incapacità di cogliere i molteplici condizionamenti e i limiti intrinseci dell’indagine scientifica. I secondi, a loro volta, accusavano i primi di un relativismo eccessivo, tale da ridurre la scienza a una sorta di “Superstizione Maggiore”, priva di autentico valore conoscitivo e ridotta a mero “ventriloquio del potere”. Le Science Wars si conclusero senza esiti determinanti: entrambe le parti rientrarono nei rispettivi dipartimenti, senza che le loro posizioni venissero effettivamente scalfite dal confronto.
La perdurante impermeabilità della comunità scientifica alla teoria critica è dettata senz’altro dal fatto che essa trova la propria stessa ragion d’essere e la propria “esclusività” esattamente nella pretesa di maneggiare una materia inscalfibile e imperitura, adottando quindi una postura di sfiducia pregiudiziale nei confronti della critica “umanistica”. È probabile però che questa impermeabilità sia da imputare anche a un limite della teoria critica stessa: infatti, se da un lato quest’ultima ha efficacemente fatto luce sulla fragilità delle granitiche certezze scientifiche, mettendo in discussione la presunta infallibilità e neutralità della scienza, dall’altro ha spesso faticato a proporre alternative operative, capaci di scongiurare il rischio del relativismo storico-culturale o dell’esaltazione di “piccoli saperi”, situati e cangianti, che non sono riusciti a competere con la grande narrazione della portata universale della conoscenza scientifica.
Riteniamo che questi limiti non siano solo materia di dibattito accademico, poiché, a partire dagli anni Settanta, queste correnti di pensiero hanno ampiamente condizionato la produzione intellettuale e gli orientamenti della sinistra radicale. Il nodo irrisolto, a nostro avviso, consiste nella necessità di produrre una teoria servibile per la prassi, capace di andare oltre la critica accademica e di produrre materialmente un orizzonte trasformativo. Una teoria siffatta dovrebbe saper mettere a critica la scienza avendo la capacità di separarne gli aspetti gnoseologici da quelli normativi, l’affidabilità del dato dal modo in cui esso viene concettualizzato e raccontato, la possibilità di cogliere la realtà empirica dal fatto che essa viene poi inevitabilmente collocata in un quadro interpretativo che vive di condizionamenti sociali, culturali, storici. Se la critica non è all’altezza di questa sfida, sarà inevitabilmente condannata all’autoreferenzialità, offrendo nel migliore dei casi un interessante ma sterile contributo intellettuale, nel peggiore una fumosa polemica radicale e provocatoria. Quest’ultima non farà altro che rendere il mito positivista sempre preferibile agli occhi di chi “crede nella scienza”, senza riuscire a produrre alcuna indicazione nei termini della prassi trasformativa se non su un piano di pura evocazione immaginifica.
Tra positivismo e radicalismo, la scienza resta intoccabile
La diffusione di sistemi di pensiero che relativizzano la scienza non nasce dal nulla, ma si sviluppa in opposizione alla percezione diffusa secondo cui la scienza opera come una forza indipendente dal resto delle attività umane – percezione che si è insinuata anche nel pensiero critico, paralizzandolo. La “critica radicale di tutto l’esistente”, da cui i movimenti sociali hanno tradizionalmente tratto la forza per i propri programmi di emancipazione, sembra essersi fermata sulle soglie dei laboratori e degli istituti di ricerca. A ben vedere, i pregiudizi tardo-positivistici sugli intrinseci benefici apportati dalla ricerca scientifica in quanto tale, e quelli irrazionalistici che diffidano della capacità della scienza di produrre qualsivoglia beneficio collettivo, non sono che due facce di un’unica medaglia: l’idea che la scienza risponda a una logica propria che sfugge al controllo sociale diffuso.
Sul piano intellettuale, le tragedie in cui nel Novecento è incappata la gloriosa marcia del progresso storico sono state occasione di riflessione critica sulla direzione intrapresa dalla ricerca scientifica, ma senza che si riuscisse ad aggredire il cuore del problema. Molte analisi si sono concentrate sul ruolo dominante della “tecnica” nel mondo contemporaneo, ma spesso attestandosi su un livello di astrattezza che impedisce di comprendere il modo in cui la scienza partecipa concretamente a determinare lo sviluppo sociale complessivo.
In maniera del tutto speculare, la critica si è sviluppata anche in relazione ai limiti e alle contraddizioni non più eludibili di una conoscenza scientifica prodotta in gran parte all’interno di istituzioni fortemente elitarie ed esclusive nelle società più “avanzate”. In questo caso, la riflessione critica ha spesso fatto ricorso alla scorciatoia del relativismo culturale, sfidando il sapere scientifico sul piano tutto ideologico della sua presunta “superiorità” epistemica e contrapponendogli altri saperi di diversa provenienza ma di cui si rivendica l’eguale validità e legittimità. Si pensi, a solo titolo di esempio, alla rivalutazione incondizionata di credenze “popolari” come alternativa alla scienza “ufficiale”, su cui vige un sospetto giustificato ma non meglio indagato.
La percezione della scienza come istituzione elitaria, esclusiva e disinteressata al benessere collettivo è talmente fondata da permeare anche il pensiero mainstream. In questo caso, però, la critica si è tradotta perlopiù in proposte volte a riformare le istituzioni scientifiche nel senso di una maggiore inclusività e apertura verso le soggettività che ne sono rimaste tradizionalmente escluse (quelle, cioè, che non corrispondono al profilo dello scienziato bianco e di sesso maschile la cui alta istruzione è spesso il portato di un’estrazione sociale privilegiata). Così facendo, le conseguenze indesiderate di uno sviluppo tecno-scientifico che non tiene conto delle esigenze della maggior parte della popolazione vengono implicitamente ricondotte all’operato dei singoli membri della comunità scientifica, senza tenere conto dei condizionamenti strutturali che fanno della scienza un apparato funzionale alla riproduzione delle società capitalistiche.
Ad aver universalmente e trasversalmente trionfato nel “mercato delle idee” – e, cosa ancora più importante, nella mentalità di chi opera professionalmente in ambito scientifico – è infatti l’idea che la scienza sia un’attività che si svolge in relativa autonomia rispetto al resto dell’agire sociale e che non sia in alcun modo condizionabile da questo. Tale assunto di fondo ha portato i settori radicali a trattare la scienza alternativamente come uno strumento potente, affidabile ed efficace ma riservato ai “tecnici”, o come un apparato del potere costituito, perpetuato da inconsapevoli funzionari.
Se da un lato, infatti, viene mossa una critica alla scienza in quanto tale, in nome di un confuso radicalismo politico-intellettuale, sull’altro versante della politica radicale sembra essere stato accolto, seppur in forma diversa, lo stesso positivismo che continua a innervare le concezioni liberali dominanti e l’autopercezione che la comunità scientifica ha di sé e del proprio operare. Per lunga parte del Novecento, anche le correnti politiche che auspicavano i cambiamenti più radicali dello status quo hanno esitato a estendere la propria critica alla scienza per timore di derive irrazionalistiche.
Gli effetti di questa accettazione acritica del paradigma scientista sono tuttora osservabili nei programmi politici di chi, di fronte agli effetti più oppressivi dello sviluppo scientifico e tecnologico, esita ancora a metterne in discussione le dinamiche interne. La politica radicale appare infatti divisa tra chi, di fronte alla catastrofe climatica indotta dallo sviluppo capitalistico, fa appello alle indicazioni della comunità scientifica per proporre modelli di sviluppo alternativi, e chi invece invoca ancora il controllo pubblico (cioè, in ultima analisi, statale) delle direzioni strategiche da imporre alla ricerca scientifica e tecnologica come via di uscita dal modello capitalistico. In entrambi i casi, ciò che sfugge è che la scienza è un’attività sociale che si è storicamente organizzata e istituzionalizzata per rispondere alle esigenze di riproduzione della società capitalista.
La fuga dalla scienza tra rischi e potenzialità
È a partire dal movimento hippie e dalla New Age che negli ambienti progressisti si assiste a un ritorno di pratiche “alternative”, quando non esplicitamente opposte a quelle della scienza ufficiale. Queste pratiche, anche molto diverse tra loro, condividono un’impostazione “olistica” che rifiuta il metodo sperimentale, rappresentato come rozzamente meccanicistico. Parliamo, ad esempio, della diffusione dell’omeopatia, dell’affermazione delle pratiche magiche dell’agricoltura biodinamica e della crescente fascinazione per pratiche esoteriche di vario genere, dalla cristalloterapia a procedure riprese dalla tradizione sciamanica. Se è vero che una scienza con propositi di riforma sociale non può fare propri saperi esoterici privi di credito, pena risolversi in aria fritta, si deve parimenti osservare che l’enfasi sulla “naturalità” e sulla visione olistica non può essere derubricata a mero nostalgismo anacronistico. La diffusione di queste pratiche riflette infatti un diffuso malessere nei confronti della scienza e, più in generale, dello sviluppo capitalistico, alimentato dal disastro dell’agricoltura industriale da fertilizzante e dei limiti di una medicina basata pressoché unicamente sulla cura farmacologica individuale. Queste pratiche rappresentano quindi una controrisposta che ha almeno il merito di individuare il problema; sono semmai le proposte costruttive a declinarsi su un piano strettamente legato a scelte di consumo e costumi individuali e a continue evocazioni moralistiche, empiricamente inefficaci e, dunque, inservibili.
Anche in questo caso, come per le correnti di pensiero nominate prima, la questione non consiste tanto nel demonizzare le pratiche “alternative”, quanto nel cogliere la necessità che esse segnalano e nell’avere la capacità di mantenere la scienza “aperta” alle rivendicazioni, ai dubbi, ai malesseri della società. Il nodo cruciale, insomma, è capire come proporre un’alternativa trasformativa e concreta, per non lasciare che il rifugio nella superstizione e nell’individualismo del consumatore diventi l’unico luogo in cui confluiscono le tendenze critiche nei confronti della scienza.
Da questo punto di vista, svariate sono le pratiche che, pur criticando l’approccio riduzionista e quantitativo della scienza o le sue finalità produttivistiche, continuano ad avvalersi di essa come strumento gnoseologico. Diversamente dalle pratiche culturali o di consumo individuale sopra citate, queste esperienze non hanno rappresentato fenomeni puramente “culturali”, ma si sono sviluppate nel vivo della società, in immediata connessione con le rivendicazioni di specifici settori di popolazione in lotta. Parliamo, ad esempio, delle pratiche dell’agroecologia, che costituiscono un movimento sociale di lungo periodo, in grado di unire il rifiuto del produttivismo ecocida dell’agricoltura industriale con le rivendicazioni di settori che reclamavano il proprio diritto alla vita e alla terra contro l’espropriazione da parte dell’agrobusiness. Ancora, pensiamo ai movimenti per la democratizzazione della medicina, ai settori della comunità scientifica che hanno adottato un approccio sistemico al tema della salute (come la medicina del lavoro, l’epidemiologia ambientale, ecc), l’alleanza, difficile ma fruttuosa, tra pazienti sieropositivi e settori di scienziati alla fine degli anni ‘80. Parliamo oggi di quei settori di accademia che boicottano la politica di Israele e la ricerca di guerra e stringono legami con i movimenti pacifisti e in termini più ampi, fornendo conoscenze e competenze. Si tratta di contributi importanti che appartengono alla tradizione della sinistra radicale, e che suggeriscono una direzione concreta per la prassi.
È il tempo di lottare per la “nostra” scienza
Per superare l’impasse derivante dalla contrapposizione fin qui delineata, è necessario interpretare la scienza come un’attività umana tra le altre, eppure dotata di specificità proprie. Umana, e dunque immediatamente socializzata. Essa è determinata dal quadro politico, culturale, sociale storicamente datosi e al contempo partecipa a determinarlo. Ma allo stesso tempo, non si tratta di un’attività di semplice produzione discorsiva finalizzata a legittimare il potere esistente, al pari della propaganda di regime. La scienza è indubbiamente anche un sistema di produzione di discorso pubblico, ma al contrario di altri ambiti di produzione di discorso, essa ha trascorso buona parte della sua esistenza a costruire metodi, procedure, meccanismi di validazione per garantire che le conclusioni cui giunge siano quanto più possibili aderenti alla realtà empirica, a prescindere dal quadro discorsivo nel quale questi vengono collocati. Questo perché, molto banalmente, se la scienza non producesse conoscenze affidabili e tecnologie efficaci non avrebbe alcuna funzione peculiare rispetto al resto delle attività umane e sarebbe facilmente scaricata dal potere stesso.
Quindi, la scienza è al contempo uno strumento potente, in grado di produrre conoscenze solide e fruibili, e un’attività permeabile ai conflitti e agli interessi che attraversano la società. Ne risulta, per chi a questo mondo non sa e non vuole rassegnarsi, che essa deve diventare un terreno di battaglia, superando tanto le critiche di un radicalismo sterile, che finisce col dar sponda al relativismo senza mettere nulla “a terra”, quanto le difese d’ufficio che rilanciano il mito positivista dell’infallibilità della scienza, elevandola nuovamente in cielo e lontano dalla portata della società e dei suoi conflitti. Pur partendo da posizioni antitetiche, queste due posture convergono infatti sul piano della prassi: entrambe suggeriscono indirettamente di rinunciare alla lotta. O, nel migliore dei casi, si limitano a condurre una battaglia di retroguardia finalizzata a introdurre alcuni correttivi nell’attività scientifica per renderla più “inclusiva”, più “accogliente” o più “comprensibile”. Correttivi senz’altro preziosi e condivisibili, ma che in ogni caso continuano a eludere il tema centrale: la creazione di rapporti di forza generali sul terreno della scienza, come avviene invece, correttamente, in molti altri terreni su cui si articolano le lotte degli oppressi.
È con questo obiettivo ben chiaro che, dopo due anni dalla nascita della nostra rete, oggi decidiamo di aprire questo blog. Vogliamo animare un dibattito che recuperi quanto di buono è stato prodotto dal pensiero critico sulla scienza e lo collochi nell’attualità. Vogliamo offrire alle nostre comunità, e a chiunque in un laboratorio si interroghi sulla propria attività, uno strumento di confronto e approfondimento. Vogliamo soprattutto costruire un bagaglio di conoscenze e analisi fruibili per la prassi, che vadano oltre la critica della scienza su un piano intellettuale che rimane indifferente alla comunità scientifica stessa. Vogliamo creare uno strumento utile per scienziati e scienziate che, in questa fase drammatica della storia, rifiutano la ricerca bellica, boicottano le istituzioni scientifiche genocidarie, lottano per affermare la realtà del cambiamento climatico contro ogni negazionismo, si impegnano per un sistema sanitario pubblico e universale, per un’università indipendente e finanziata. Vogliamo farlo superando immediatamente la separazione tra scienziati e non scienziati, insieme con tutti coloro che, pur operando al di fuori delle istituzioni scientifiche, riconoscono come proprie le questioni e i conflitti che si giocano al loro interno.