Il mondo della ricerca scientifica è sottoposto a una forte spinta a cambiare. Negli ultimi anni, diversi gruppi storicamente marginalizzati hanno sollecitato una maggiore apertura delle istituzioni accademiche, affinché le discipline scientifiche diventino più accessibili a una popolazione studentesca più ampia che comprende afrodiscendenti, donne, persone più avanti negli anni e individui provenienti dalla classe operaia.[1] Tradizionalmente, il processo di diversificazione è stato favorito mediante strategie mirate, quali politiche di discriminazione positiva o l’assegnazione di borse di studio dedicate. In risposta alle critiche più recenti sulla persistente carenza di diversità, numerosi atenei hanno istituito una pletora di comitati incaricati di promuovere uguaglianza e inclusione. Tuttavia, al di là di tali iniziative – che comprendono anche l’organizzazione di seminari e l’assunzione di qualche docente nera/o a fini meramente simbolici – il mondo accademico, nella sua globalità, ha esitato ad adottare misure più incisive e trasformative.
Ma la questione non si esaurisce alla sola diversità. Diverse voci hanno sottolineato l’urgenza di migliorare le condizioni materiali di chi lavora del mondo accademico, rivendicando, ad esempio, retribuzioni più eque, un ampliamento dei benefici e una maggiore accessibilità al diritto all’abitare.[2] Tali richieste potrebbero apparire estranee all’obiettivo di abbattere le barriere d’accesso al mondo accademico, ma non bisogna trascurare l’impatto significativo che anche un semplice beneficio materiale può avere su chi si trova già in una condizione di svantaggio. Migliorare le condizioni materiali di lavoro non è soltanto un’esigenza, ma un prerequisito imprescindibile per rendere qualsiasi ambiente professionale più accessibile a coloro che affrontano situazioni di disuguaglianza, contribuendo al contempo a elevare la qualità della vita di tutta la popolazione lavoratrice.
Oltre alle barriere di natura materiale, il contesto culturale stesso del mondo accademico rappresenta un ostacolo significativo. I dipartimenti universitari si caratterizzano per strutture gerarchiche rigide, in cui i titoli accademici definiscono con precisione le dinamiche di potere nelle varie interazioni, come quelle tra supervisor di dottorato e assistente, o tra assistenti alla didattica e studentesse e studenti. L’ambiente accademico perpetua spesso pratiche esoteriche volte a tracciare una netta distinzione tra chi appartiene all’élite intellettuale e chi ne resta escluso: dall’aggressività dialettica nei seminari all’uso di un gergo settoriale, fino all’adozione di forme di sapere intrinsecamente classiste. Questi meccanismi non fanno che acuire le difficoltà di coloro che già si trovano in una condizione di marginalità.[3]
Queste dinamiche affondano le loro radici nella cultura stessa dell’istituzione universitaria e nella sua crescente dipendenza dal profitto e dalla crescita. Grazie a ingenti donazioni e a vasti patrimoni immobiliari, le università si sono trasformate in target privilegiati per gli investimenti del settore finanziario. Questo accumulo di ricchezza si fonda sul prestigio dell’ateneo, alimentato dalle attività di formazione e ricerca e dai brevetti e prodotti che ne derivano. Tuttavia, il valore generato dall’università poggia in larga misura sul lavoro di una popolazione sempre più numerosa di studentesse e studenti di dottorato, giovani ricercatrici e ricercatori e docenti a cui vengono imposti contratti precari e retribuzioni inadeguate. Questo meccanismo di estrazione colpisce in modo spropositato studentesse e studenti appartenenti a comunità emarginate. Lo squilibrio si riflette anche nella composizione del corpo docente: la carenza di posizioni di ruolo costringe laureate e laureati con minori risorse economiche ad accettare incarichi di insegnamento a termine, mal retribuiti e instabili, una realtà che si sta ormai diffondendo in modo sistematico all’interno delle istituzioni accademiche.
Nell’ultimo decennio, lavoratrici e lavoratori del mondo accademico hanno intrapreso un percorso di organizzazione sindacale all’interno di molte università statunitensi. Solo nell’area di New York, e solo negli ultimi cinque anni, ricercatrici, ricercatori, studentesse e studenti della Columbia University, della New School e della Fordham University hanno costituito sindacati universitari affiliandosi a organizzazioni più ampie come la International Union, la United Automobile, Aerospace and Agricultural Implement Workers of America (UAW) e la United Federation of Teachers (UFT).[4] Questi sforzi di sindacalizzazione hanno permesso a dottorande e dottorandi di prendere parte attiva agli scioperi e alla negoziazione dei contratti, nel tentativo di ottenere il riconoscimento e la tutela del loro ruolo lavorativo. Tuttavia, poiché le loro mansioni costituiscono un ibrido di responsabilità accademiche e impieghi retribuiti, le tutele collettive offerta dal sindacato hanno lasciato scoperte alcune aree critiche. Per le dottorande e i dottorandi nelle discipline scientifiche della New York University, ad esempio, l’attività di ricerca non è ufficialmente riconosciuta come lavoro da parte dell’ateneo. Inoltre, i/le research advisor non sono considerate/i datrici o datori di lavoro, nonostante il reddito di ricercatrici e ricercatori dipenda interamente dalla borsa di studio erogata da queste figure. Di conseguenza, il sindacato non può mediare il rapporto tra research advisor e dottorande/i, nonostante si configurino qui le stesse asimmetrie di potere di un rapporto tra dipendente e datore/datrice di lavoro. Ne consegue che il comportamento del/la research advisor resta escluso dalla regolamentazione contrattuale collettiva, privando dottorande e dottorandi di tutele che servirebbero a riequilibrare una dinamica di dipendenza.
Il mio percorso alla New York University (NYU), iniziato nel 2017 come dottorando in fisica, mi ha visto impegnato attivamente in due iniziative sindacali. Ho ricoperto il ruolo di steward per il GSOC-UAW Local 2110 (di seguito GSOC), il sindacato dei lavoratori laureati della NYU, contribuendo alle mobilitazioni che hanno condotto allo sciopero e alla successiva negoziazione contrattuale nella primavera del 2021. Inoltre, sono stato tra i fondatori della Graduate Physics Organization for Research, Culture, and Education (G-PHORCE), istituita nel 2019 con l’intento di promuovere un ambiente più equo e inclusivo all’interno del dipartimento, difendere i diritti di ricercatrici e ricercatori e sollecitare l’università a garantire maggiore trasparenza e responsabilità istituzionale.[5]
I membri di G-PHORCE ritenevano che il GSOC non fosse in grado di affrontare alcune problematiche specifiche, in particolare perché dottorande e dottorandi in fisica della NYU non possono accedere ai benefici sindacali fino a quando non iniziano a insegnare. Abbiamo quindi fondato G-PHORCE con l’obiettivo di instaurare un dialogo diretto con la direzione del dipartimento, cercando di colmare le lacune nei benefici disponibili per le diverse categorie di ricercatrici e ricercatori. Inoltre, ritenevamo che un’organizzazione interna al dipartimento avrebbe potuto interagire più direttamente con i/le docenti, con cui avevamo rapporti consolidati, e incidere così sulla cultura del dipartimento in modo più efficace rispetto a un grande sindacato che rappresentava l’intera comunità di ricercatrici e ricercatori della NYU.
Negli anni successivi, sia a causa delle difficoltà imposte dalla pandemia di COVID sulla vita di studentesse e studenti, sia per l’andamento delle trattative contrattuali con l’università, ho visto il potere collettivo di chi svolge attività di ricerca venire messo alla prova sia all’interno del GSOC che del G-PHORCE. La lotta sindacale, in definitiva, ha fatto leva sul nostro potere collettivo con un successo decisamente maggiore. Mi auguro che un’analisi retrospettiva di queste esperienze di organizzazione alla NYU possa fornirci spunti preziosi su quali siano le strategie più efficaci da adottare come movimento su scala nazionale in tutto il mondo.
Il potere al tavolo della contrattazione
In vista del rinnovo contrattuale previsto per il 2020, il GSOC ha dedicato circa un anno a crearsi una base nella popolazione lavoratrice: abbiamo visitato decine di dipartimenti, sparsi in vari edifici, e parlato con migliaia di colleghe e colleghi. Il nostro messaggio era chiaro e diretto: “Abbiamo un contratto. Questo contratto sta per scadere. Più membri attivi riusciremo a coinvolgere durante le trattative, migliore sarà il risultato. Più iscritte/i saranno disposti a scioperare, più forte sarà la nostra minaccia di sciopero. Più forte sarà questa minaccia, più facile sarà per noi ottenere un contratto vantaggioso per i prossimi cinque anni.”
Abbiamo formato il nostro comitato di contrattazione, realizzato numerosi sondaggi per identificare le priorità di chi lavora e creato diversi gruppi di lavoro per redigere le richieste in ogni settore di interesse, dalla rimozione della polizia dalle facoltà ai risarcimenti e alle misure di protezione contro le molestie.[6] Abbiamo quindi realizzato diversi test di struttura per richiedere misure d’emergenza riguardo le precauzioni contro il COVID-19 nel campus, e, nell’estate del 2020, le nostre videoconferenze mensili hanno regolarmente attirato più di un centinaio di persone.
Più difficile è stato ottenere la partecipazione di dottorande e dottorandi nelle materie scientifiche. Di solito, infatti, i laboratori dispongono di fondi per le sovvenzioni e assumono laureate e laureati come assistenti di ricerca, che però alla NYU sono considerate/i tirocinanti piuttosto che lavoratori e lavoratrici. Di conseguenza, la loro retribuzione e i benefici non sono stati oggetto delle trattative contrattuali, e molte persone tra loro si sono sentite distanti dalla causa. Solo una minoranza delle dottorande e dei dottorandi (solitamente chi svolgeva ricercava teorica) dipendeva dall’insegnamento per percepire un reddito, e le loro preoccupazioni erano principalmente legate all’aumento della retribuzione. La maggior parte delle dottorande e dei dottorandi nelle materie scientifiche ha preferito non partecipare per paura di compromettere la propria ricerca o per timore delle possibili reazioni da parte dei/delle research advisor. Chi ha partecipato lo ha fatto soprattutto per solidarietà verso colleghe e colleghi, e questo spirito si è manifestato poi nei picchetti.
Nonostante la nostra preparazione, il confronto con la macchina amministrativa della NYU ha giocato a nostro sfavore al tavolo delle trattative. L’università ha ingaggiato giuslavoriste/i specializzate/i nella repressione dei sindacati e ha avviato una campagna di diffamazione pubblica, che includeva email umilianti inviate ai genitori di dottorande e dottorandi per informarli delle trattative in corso. L’ateneo ha diffuso informazioni errate al personale e all’opinione pubblica, definendo le nostre richieste irragionevoli. Nulla di tutto ciò ci ha sorpreso particolarmente: accusare lavoratrici e lavoratori di avere richieste irragionevoli è una tattica padronale vecchia come il mondo.
Con l’avanzare delle trattative, cresceva anche la radicalizzazione tra le nostre iscritte e i nostri iscritti. La pandemia aveva amplificato ogni tipo di pressione economica e sociale sui membri più emarginati dell’università. Le proteste dell’estate 2020 avevano scatenato un potente senso di partecipazione all’azione collettiva, e le conversazioni nel campus si concentravano sul razzismo della polizia, sulla supremazia bianca nel mondo accademico e scientifico, e sulla necessità di un sostegno strutturato per chi era stata/o colpita/o più duramente dal COVID-19 e dalla recessione economica. Le dottorande e i dottorandi della NYU erano inferocite/i per la situazione, trovando finalmente il tempo e la motivazione per impegnarsi nel lavoro organizzativo.
I membri del GSOC hanno continuato a costruire solidarietà tra lavoratrici e lavoratori, invitando a partecipare alle sessioni di contrattazione e tenendo tutta la comunità accademica aggiornata sugli sviluppi della lotta. Ci preparavamo per lo sciopero, cercando di coinvolgere il maggior numero possibile di lavoratrici e lavoratori, le cui vite erano già sconvolte dalla pandemia, e con cui avevamo avuto pochissime occasioni di incontrarci di persona. Il nostro lavoro organizzativo si è attuato in una serie interminabile di telefonate e videoconferenze. Per mesi, le avvocate e gli avvocati della NYU non hanno ceduto rispetto alla loro posizione, dibattendo su cavilli legali e rifiutandosi di riconoscere la legittimità delle nostre richieste, mentre noi progettavamo lo sciopero.
Dopo una campagna serrata, abbiamo indetto una votazione sullo sciopero che ha ottenuto un clamoroso successo, con una partecipazione del 70% delle persone iscritte e il 96,4% dei voti favorevoli allo sciopero.[7] Una volta fatto ritorno al tavolo delle trattative con un voto quasi unanime a favore dello sciopero, la NYU ha cominciato ad accettare le nostre richieste una dopo l’altra, nel giro di poche settimane. Il giorno dell’accordo provvisorio, le trattative si sono concluse con la richiesta delle avvocate e degli avvocati della NYU di smantellare immediatamente il picchetto. Avevano perso la battaglia e la faccia davanti alla stampa[8], mentre noi abbiamo potuto finalmente goderci la nostra vittoria.
Il successo del GSOC nelle trattative contrattuali ha suscitato reazioni contrastanti tra ricercatrici e ricercatori. I miglioramenti in termini di salari, benefici e tutele lavorative non hanno apportato benefici tangibili alla maggior parte della nostra comunità di fisici, ma hanno rafforzato la consapevolezza di molte persone che hanno visto negli sforzi profusi dall’università per reprimere l’organizzazione sindacale delle azioni oppressive da parte dei suoi vertici, e ha anche incrementato le aspettative di laureate e laureati su come dovrebbero essere trattati dai propri superiori. Ciò di cui tutti avevamo bisogno era una scossa che catalizzasse la frustrazione e la trasformasse in azione concreta.
Un tentativo fallito di condivisione del potere
Sulla scia delle rivolte di Black Lives Matter nel 2020, anche il Dipartimento di Fisica della NYU, come molti altri spazi accademici negli Stati Uniti, è stato scosso da un’intensa agitazione.[9] La fisica, in generale, è notoriamente escludente nei confronti dei gruppi sociali emarginati. Ad esempio, dal 2022, il Dipartimento di Fisica della NYU contava un solo membro della facoltà nero e cinque donne su circa 40 professori. La rappresentanza tra le studentesse e gli studenti non è molto migliore. Prima dell’anno accademico 2021-22, nel dipartimento c’era un solo studente laureato nero. Il rapporto di genere nella fisica è storicamente sfavorevole, con meno di una laureata donna su cinque in tutti gli Stati Uniti, e tale situazione non è migliorata significativamente negli ultimi due decenni.[10] Il fatto che la rappresentanza in fisica sia così scarsa rispetto ad altre discipline scientifiche evidenzia un problema culturale radicato all’interno del campo, un problema che le dottorande e i dottorandi del nostro dipartimento hanno cercato di affrontare pochi mesi prima dell’inizio della pandemia. Nell’estate del 2020, quando le proteste di Black Lives Matter erano al culmine, la pressione per il cambiamento era alle stelle.
Il nostro obiettivo era promuovere la coesione sociale tra dottorande e dottorandi, e di farlo in un modo esplicitamente politico, che superasse l’isolamento tipico dei laboratori e delle scuole di specializzazione – isolamento che avrebbe addirittura facilitato i nostri obiettivi organizzativi. È molto più facile convincere le persone ad agire insieme quando alla collegialità si aggiunge l’amicizia, come le attiviste e gli attivisti del GSOC hanno imparato rapidamente: chiamare dottorande e dottorandi a un aperitivo, per esempio, ha creato legami personali tra gli individui. A quel punto, diventa molto più difficile ignorare le richieste di supporto dalle compagne e dai compagni del sindacato, perché le persone non sono più semplici individui astratti, ma diventano responsabili in prima persona del benessere reciproco.
Gli obiettivi politici di G-PHORCE erano in parte simili a quelli del sindacato, in quanto miravamo a migliorare le condizioni materiali di tutte e tutti, ma ci siamo anche impegnati in un progetto culturale volto a cambiare le dinamiche interne del dipartimento. Volevamo creare sistemi di sostegno per lavoratrici e lavoratori emarginate/i e formare sia i colleghi che la facoltà sulle vie da seguire per rendere il nostro dipartimento veramente diversificato e accessibile. La semplice abolizione dell’uso del test GRE nelle ammissioni, ad esempio, sarebbe un passo molto utile, dato che i risultati di questo esame sono fortemente correlati con il genere e l’origine etnica piuttosto che con i reali risultati accademici conseguiti nella scuola di specializzazione.[11] Come ci hanno fatto notare i membri della facoltà, la ragione principale dell’uso di questo test è che esso rende il processo di ammissione più facile per l’amministrazione. La resistenza che abbiamo incontrato nel cercare di cambiare la cultura del nostro dipartimento e di ottenere maggiore accesso e voce nelle decisioni è stata più forte di quanto ci aspettassimo. Non solo abbiamo visto la paura del personale di facoltà di fronte alla possibilità che partecipassimo alle riunioni, ma abbiamo anche visto come i nostri obiettivi fossero percepiti come una minaccia diretta al controllo del personale di facoltà sui processi decisionali. Questo atteggiamento aveva radici profonde nella paura di perdere il potere e l’influenza che le/i docenti esercitavano attraverso comitati e altre strutture interne. Nonostante il nostro intento fosse di migliorare la trasparenza, la coesione e le condizioni lavorative, il timore che stessimo cercando di influenzare le nomine accademiche ha monopolizzato il confronto.
Poco dopo aver costituito G-PHORCE, abbiamo partecipato a una riunione di facoltà per spiegare perché avremmo dovuto partecipare alle riunioni future come membri osservatori (se non votanti). Paura e indignazione hanno accolto questa richiesta per via del pregiudizio secondo cui stavamo cercando di influenzare il reclutamento dei/delle giovani docenti, sebbene ciò non fosse tra i nostri obiettivi. In seguito abbiamo appreso che il rettorato aveva comunicato alla facoltà che partecipare alle commissioni di nomina faceva parte del nostro programma. Per impedirci di ottenere un qualsiasi consenso all’interno del dipartimento, il rettore aveva sfruttato la paura dei docenti di perdere le poltrone a cui tenevano di più.
Questo schema si sarebbe ripetuto in seguito. Nei mesi successivi, abbiamo visto la paura del personale docente di fronte alla prospettiva di un nostro possibile ingresso negli spazi decisionali. Quegli spazi, tra l’altro, erano gli stessi temuti comitati di facoltà di cui il personale amava lamentarsi con noi. All’inizio della pandemia, abbiamo chiesto alle e ai docenti di firmare una lettera in cui si chiedeva all’università di fornire finanziamenti ed estendere i programmi per un anno. Costoro hanno rifiutato, dicendo che dubitavano che la lettera avrebbe convinto l’amministrazione; in seguito hanno optato per una versione annacquata della mozione che, tra l’altro, estendeva i finanziamenti solo a dottorande e dottorandi che potevano già contare su un sostegno economico, lasciando una parte significativa della popolazione ricercatrice esposta agli effetti finanziari della pandemia. [12] Quando abbiamo avuto bisogno del sostegno della facoltà per affrontare l’amministrazione universitaria, questa si è ritratta. Non sorprende neanche che ci abbia anche scoraggiato dallo sviluppare un sistema di segnalazione delle violazioni della condotta delle e dei docenti. Non vogliamo dipingere il corpo docente in modo malevolo; la maggior parte di loro comprende anzi benissimo le difficoltà affrontate da dottorande e dottorandi. L’antagonismo tra dottorande/i e docenti è il risultato della gerarchia universitaria che ci mette gli uni contro gli altri. Vale la pena di pensare, come organizzazione, a come ribaltare questa dinamica.
Professori e professoresse non capivano in che modo la resistenza contro di loro ci avrebbe giovato, dal momento che si consideravano nostre/i benefattori e benefattrici. Tuttavia, noi vedevamo il potere e la rappresentanza dottorale all’interno del dipartimento come il veicolo principale per una migliore inclusività. Nella nostra idea, avremmo potuto lavorare insieme in facoltà per rendere il nostro dipartimento più giusto, trasparente e sicuro per le persone emarginate, con l’obiettivo finale di cambiare la composizione del dipartimento in qualcosa di più rappresentativo della città in cui si trova. Purtroppo, in un’università in cui l’obiettivo è il profitto e il business è prestigio, un tale modello di potere condiviso è impensabile.
Dalla lotta culturale a quella materiale
C’è sempre stata una tensione tra chi si ritiene progressista e sostiene le riforme e coloro che chiedono lo smantellamento diretto delle strutture di potere. Ciò è stato per secoli fonte di accesi dibattiti nel pensiero marxista, ma in ultima analisi l’approccio corretto dipende dal grado di repressione dello Stato, dall’ambiente sociale e dal grado di consapevolezza e radicalizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori in questione.
Nei due esempi discussi sopra, troviamo una situazione parallela: data la necessità impellente di migliorare la cultura accademica e le condizioni di lavoro di scienziate e scienziati, è meglio “collaborare” con la facoltà e l’amministrazione oppure forzare la mano usando un’azione sindacale antagonista? A meno di voler provocare una scissione interna all’attivismo del tipo di quella tra bolscevismo e menscevismo, credo che l’esperienza della NYU abbia molto da insegnare. Considerando il controllo dell’amministrazione sul processo decisionale all’interno dell’università e l’attuale momento politico in cui i colletti bianchi in tutto il Paese si stanno sindacalizzando in numero sempre maggiore, è imperativo che scienziate e scienziati in cerca di migliori condizioni si rivolgano all’azione radicale.
L’amministrazione universitaria detiene ancora la piena autorità sul corpo docente: controlla le nomine, le promozioni e i finanziamenti. Studentesse e studenti di dottorato non potranno mai esercitare un’influenza sul corpo docente lavorando al suo seguito. Non possiamo apportare cambiamenti dall’interno se prima non ci facciamo strada con la forza tra le fila di chi prende le decisioni. E, per farlo, abbiamo bisogno di un nostro sindacato. Il GSOC ha usato la bruta forza di contrattazione di migliaia di lavoratrici e lavoratori che rinunciavano a lavorare, forzando la mano e spuntandola contro l’università su un’ampia gamma di questioni, che vanno da benefici essenziali come i sussidi per l’assistenza all’infanzia a progetti culturali più ambiziosi, come l’allontanamento della polizia dal campus.[13] Questo uso della forza è l’approccio necessario per ricercatrici e ricercatori così come per il resto del personale accademico non di ruolo, almeno fino a quando non avremo conquistato posizioni chiave all’interno della gerarchia amministrativa. Allora, forse, una pressione più morbida potrà dare i suoi frutti.
Dobbiamo tenere presente che questa necessità di pressione esterna sulla gerarchia universitaria non significa che l’organizzazione interdipartimentale sia inutile. Organizzazioni come G-PHORCE hanno infatti molti punti su cui possono far leva all’interno dell’istituzione. La reputazione del dipartimento è un fattore importante per le ammissioni, e la presenza di ricercatori e ricercatrici insoddisfatte/i può facilmente disincentivare potenziali candidate/i dall’entrare a far parte del dipartimento. Ricercatrici e ricercatori possono anche organizzarsi in un proprio sindacato all’interno dell’università, oppure organizzare rallentamenti e interruzioni del flusso di lavoro all’interno del dipartimento. Creare uno spazio per esporre le proprie rimostranze e trovare soluzioni favorisce un ambiente in cui l’azione collettiva può crescere e prosperare.
Nel 2020-2021 ho visto migliaia di ricercatrici e ricercatori costringere la più grande università privata del Paese a piegarsi alle loro richieste. Sono stato anche testimone del rifiuto che colleghe e colleghi di fisica hanno ricevuto a fronte della possibilità prospettata al personale docente di lavorare con noi per migliorare il nostro dipartimento. Talmente forte era la paura di perdere il proprio potere, che si è preferito lasciare che lo status quo di esclusione e marginalizzazione si perpetuasse intatto. Nessun impegno per la diversità, l’uguaglianza e l’inclusione può fare breccia nella mentalità che alberga in molti esponenti del mondo accademico. Le università hanno scelto di operare come grandi aziende, quindi chi vi lavora e cerca un cambiamento deve sfidare il sistema universitario nello stesso modo in cui si affrontano le grandi aziende: colpendo i loro profitti.
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Salvador Vidal-Ortiz, “Dismantling Whiteness in Academy”, Insider Higher Ed 10 novembre 2017, https://www.insidehighered.com/advice/2017/11/10/how-whiteness-structuring-interactions-higher-education-essay ↑
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Michelle Yang, “UC academic student workers demand housing support, equitable job opportunities”, Daily Bruin, 25 maggio 2022, https://dailybruin.com/2022/05/25/uc-academic-student-workers-demand-housing-support-equitable-job-opportunities, & Scott Jaschick “What Academic Labor Wants”, Inside Higher Ed, 12 luglio 2021, https://www.insidehighered.com/news/2021/07/12/summit-academic-unions-envisions-broad-changes-higher-education ↑
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Sarah Shandera et al. “RASE: Modeling cumulative disadvantage due to marginalized group status in academia”, PLoS ONE, 16 dicembre 2021 ↑
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SWC-UAW Local 2170, SENS-UAW Local 7902, FGSW-CWA ↑
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Gli altri membri fondatori erano Paul McNulty, Cristina Mondino, Marco Muzio e Kate Storey-Fisher. La maggior parte del lavoro fondativo è stato svolto da Marco (compresa la stesura della maggior parte del nostro statuto), che in qualche modo è riuscito anche a scrivere e difendere la sua tesi nello stesso anno. https://physics.nyu.edu/gphorce/. ↑
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Un resoconto dettagliato delle modifiche apportate al contratto è disponibile all’indirizzo https://makingabetternyu.org/2021/05/15/tentative-agreement-with-nyu-reached-membership-to-vote/. Questi sono stati i cambiamenti finali che hanno avuto luogo dopo la conclusione di tutte le attività di organizzazione e contrattazione. ↑
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Lau Guzman, “NYU Grad Student Union Votes In Favor of Authorizing a Strike”, NYU Local, 13 aprile 2021, https://nyulocal.com/nyu-grad-student-union-votes-in-favor-of-authorizing-a-strike-18f627137ea5. Il tasso di partecipazione del 70% è una stima: le schede votate per lo sciopero sono state 1386, pari a circa il 70% degli iscritti al GSOC, circa 2000 lavoratori e lavoratrici laureati. ↑
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Emma Goldberg, “‘They’re Trying to Bully Us’: N.Y.U. Graduate Students Are Back on Strike”, New York Times, 30 aprile 2020, https://www.nytimes.com/2021/04/30/nyregion/nyu-strike.html ↑
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In fisica, il principale sforzo organizzativo che ne è derivato a livello nazionale è stato Particles for Justice. https://www.particlesforjustice.org/ ↑
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National Science Foundation, “Women, Minorities, and Persons with Disabilities in Science and Engineering”. https://www.nsf.gov/statistics/2017/nsf17310/digest/fod-women/physics.cfm ↑
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Nicholas Young and Marcos Caballero, “Physics Graduate Record Exam does not help applicants ‘stand out’”, Physical Review Education Research, 23 giugno 2021 ↑
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Dichiarazione di NYU GSAS “FUNDING AND FEE WAIVER EXTENSIONS FOR CONTINUING PHD STUDENTS”. gsas.nyu.edu/coronavirus-information/funding-and-fee-waiver-extensions-for-continuing-phd-students.html ↑
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La NYU non ha accettato di cacciare la polizia dal campus in toto, ma ha accettato di considerarla un problema di salute e sicurezza e di nominare una commissione per esaminarla. Questa potrebbe sembrare una vittoria monca, ma lo sembrerà meno se si tiene a mente che il semplice riconoscimento della presenza della polizia come problema di salute e sicurezza per i lavoratori e lavoratrici era considerato inaccettabile all’inizio dei negoziati. ↑